Da tempi immemori i confini hanno rappresentato un principio organizzatore delle più illustri civiltà antiche e, in tempi moderni, degli Stati-nazione. Oggi, tuttavia, sembra che il ruolo sacro e quasi inviolabile dei confini sia sempre più fragile e che nuovi principi governino i processi sociali e politici: uno fra tutti, la connettività. Come spiega il geografo indiano Parag Khanna, chi detiene il potere oggi è connesso e non separato; la vera corsa agli armamenti nel XXI secolo si gioca sul controllo delle reti di connessioni e non delle trincee. Solo per citare alcuni esempi, si pensi alla leverage politica dei giganti Amazon e Facebook, al contendere tra Stati Uniti e Cina per la rete di comunicazione 5G, o si prenda l’imponente piano cinese della Nuova Via Della Seta. Quest’ultimo dimostra come la Cina abbia compreso l’enorme potere delle reti di connessione nel modificare gli assetti geopolitici globali.
Annunciata nel 2013 dal Presidente Xi Jinping durante la sua visita in Kazakhstan, il piano della Nuova Via della Seta è un progetto che mira ad implementare una rete di infrastrutture che connetta Pechino a oltre 64 Paesi di Asia, Europa e Africa, con l’ambizione di fare della capitale cinese il fulcro del commercio globale entro il 2049. A beneficiare primariamente degli investimenti cinesi, sono i Paesi dell’Asia Centrale visto che sul loro territorio si dipanano i corridoi terrestri del progetto cinese. La Belt and Road Initiative rappresenta un’opportunità unica per le ex-repubbliche sovietiche per uscire dall’isolamento che le ha contraddistinte almeno da cento anni da questa parte.
Se ai tempi dell’Antica Via della Seta l’Asia Centrale pullulava di carovane e hub commerciali, in tempi recenti è stata più una roccaforte isolata e difficilmente accessibile. A questa condizione hanno concorso diversi aspetti geografici, storici e politici. In primis, le ex-repubbliche sovietiche mancano di un diretto accesso al mare e sono caratterizzate da territori ampi con bassa concentrazione abitativa. Inoltre, l’apertura alle relazioni internazionali è stata pesantemente influenzata dal dominio sovietico e l’instaurarsi di regimi autoritari protezionistici nella maggior parte dei Paesi in oggetto, ha creato barriere al commercio e agli investimenti esteri.
Oggi, tuttavia, il boom del commercio euro-asiatico, il cambiamento politico in alcuni Paesi dell’area (ad esempio l'Uzbekistan) e la Belt and Road Initiative stanno contribuendo a far uscire l’area dell’isolazionismo che l’ha contraddistinta fino a tempi recenti. Nello specifico, negli ultimi dieci anni il commercio tra Unione Europea e Cina è aumentato dell’87%. Come spiega Martin Russell nella sua analisi se la via marittima rimane il modo più economico per l’invio di merci, per una categoria di prodotti – come le componenti elettroniche o i ricambi automobilistici – la via terrestre rappresenta un’ opzione preferibile, data la celerità nella spedizione.
È così che a partire dal 2007, la quantità di merci trasportate per via ferroviaria tra Cina e UE si è quadruplicata. Una delle rotte maggiormente utilizzate è il New Eurasian Land Bridge, uno dei 6 corridoi terrestri della BRI che, partendo dalla città cinese di Lanzhou attraversa il Kazakhstan per poi arrivare in Germania passando per Mosca. Un secondo corridoio si dipana tra Cina e Turchia attraversando l’Iran: una linea ferroviaria, inaugurata nel 2018, tra Mongolia e Iran passa attraverso Kazakhstan e Turkmenistan. A questa si aggiunge il China - Central Asia - West Asia Corridor che attraversa il Kazakhstan dal porto di terra di Khorgos sul confine sino-kazako arrivando sulle sponde del mar Caspio ad Aktau.
Tra i Paesi dell’Asia centrale, il Kazakhstan è stato il Paese ove la BRI ha trovato particolare terreno fertile rafforzando la già rilevante cooperazione tra i due Paesi. (ndr. La Cina è già il primo partner commerciale e investe lautamente nel settore petrolifero nazionale) Nel lungo periodo, la BRI potrebbe far si che il Kazakhstan diventi il maggiore hub logistico della regione. Una prova tangibile è il caso del porto di terra di Khorgos sul confine sino-kazako, snodo logistico e commerciale di riferimento per la regione. Il porto smista ogni mese 6 200 TEU all’anno e entro il 2020 prevede di raggiungerne 41 000, per un totale di 500 000 TEU all’anno. (Circa l’80% delle merci raggiunge i Paesi delle ex-repubbliche sovietiche) Uno sviluppo impressionante se si pensa che l’inaugurazione risale a soli quattro anni fa : alcuni commentatori hanno definito Khorgos “la Rotterdam del futuro”. In questo progetto la Cina rappresenta un partner strategico ma non la regia di comando. Infatti il porto di Khorgos è stato sovvenzionato dal governo kazako e la compagnia ferroviaria di Stato ne detiene la maggior parte del capitale.
Altro Paese di interesse per la BRI è il vicino Uzbekistan. Alla luce della nuova Presidenza Mirziyoyev il progetto cinese appare come un’occasione per superare la condizione di isolazionismo che aveva contraddistinto il Paese fino al 2016. La Cina è stata considerevolmente coinvolta nella costruzione della nuova ferrovia Pap-Angren che connette la valle di Fergana, condivisa tra Uzbekistan, Kyrgyzstan e Tajikistan); in precedenza la regione era praticamente inaccessibile dato che l’unico accesso era via Tashkent percorrendo un percorso tortuoso che attraversa il Tajikistan. Nello specifico, la Pap-Angren è parte integrante di un progetto BRI più ampio che ambisce a connettere la città cinese di Kashgar ad Osh, sita nel settore kirghiso della Valle, e da li, raggiungere Uzbekistan, Turkmenistan, Iran, e Turchia. In aggiunta a questo, la Cina è coinvolta nella realizzazione di un’autostrada, un tunnel autostradale che si sviluppi parallelamente alla rete ferroviaria di Pap-Agren. Infine, la collaborazione sino-uzbeka ha trovato spazio anche nel settore energetico visto il finanziamento cinese ai tre gasdotti che connettono l’Uzbekistan alla linea principale che intercorre tra Turkmenistan e Cina.
Ad essere protagonista della BRI è anche il vicino Tajikistan. Nel 2014 il Presidente cinese Xi Jinping in visita ufficiale a Dushanbe, ha adottato un piano di sviluppo quinquennale per sviluppare la partenership sino-tagika. La Cina ha investito circa $720 milioni per ammodernare le infrastrutture di questa repubblica centroasiatica: solo per citare alcuni esempi si veda l’ampliamento e la ristrutturazione della strada tra Dushanbe e Khujand e l’apertura di un’autostrada tra Dushanbe e Kulma. Il fulcro della cooperazione sino-tagika è il corridoio autostradale Dushanbe-Kulyab-Khogros-Kulma-Karakorum, unica via terrestre che collega Cina e Tagikistan. È notizia dello scorso 30 ottobre che Pechino ha concesso $360 milioni per il completamento dell’opera e per un secondo progetto inerente il tratto autostradale tra Kolub e Bokhtar. Parallelamente, Pechino ha ottenuto in cambio delle esenzioni fiscali a favore di diverse imprese cinesi operanti in Tagikistan: ad oggi, l’ammontare dei prestiti cinesi verso la controparte tagika ammonta a circa $ 1,5 miliardi, circa il 52 % del debito pubblico nazionale.
Nel valutare l’impatto dell’iniziativa cinese sui Paesi riceventi, è diffusa una narrativa che vede gli investimenti cinesi nell’ambito della Belt and Road Initiative come parte della cosiddetta “debt-trap diplomacy” determinando di un rapporto di “vassallaggio” tra Cina e Paesi terzi. Nei mesi recenti alcune nazioni come Pakistan e Malesia hanno cancellato o rivisto accordi precedentemente negoziati con la Cina, temendo gli effetti negativi di un eccessivo indebitamento sul bilancio nazionale. Il precedente che nessuno Stato vorrebbe replicare è quello toccato allo Sri Lanka che, trovandosi in grave difficoltà nel ripagare il prestito cinese, ha accettato di concedere il controllo di un porto alla Cina per i prossimi novantanove anni in cambio di un alleggerimento del debito pubblico e di ulteriori investimenti.
Il caso del Tagikistan sembra rientrare in questo quadro interpretativo. Tajikistan e Cina hanno una disputa territoriale nella zona orientale della regione del Pamir, nel sottosuolo della quale vi sarebbero importanti riserve d’oro e di altri metalli preziosi: nel 2011 degli inizali 28 000 km2 reclamati, 1000 sono passati sotto il controllo di Pechino (circa il 3% del totale), in cambio Dushanbe ha ottenuto una parziale decurtazione del debito contratto. (ndr. I territori contesi sono ricchi in oro e in altri materiali preziosi)
Sarebbe tuttavia sbagliato prendere questa visione come universale ed esemplificativa dell’iniziativa cinese. In taluni casi, la spinta ad incrementare la connettività in Asia Centrale non si configura come uno strumento che Pechino usa per potenziare la sua leverage politica e creare una coorte di Stati dipendenti: la BRI si armonizza talvolta perfettamente con esigenze nazionali. Un caso esemplificativo è il Kazakhstan che ha risposto attivamente alla BRI designando un proprio piano di sviluppo infrastrutturale, la Nurly Zhol. Secondo fonti governative, sotto questo progetto il Paese sta costruendo o rinnovando ben 7000 km di strade e 4000 di autostrade. Ciò dimostra come Kazakhstan e Cina lavorino in sincronia e condividano una visione strategica di ampio respiro. Non a caso il neo-eletto Presidente Tokayev ha fatto visita a Pechino il 12 settembre rimarcando l’importanza della partnership sino-kazaka.
In conclusione, il caso del Kazakhstan dimostra come il progetto cinese della Belt and Road Initiative possa rivelarsi effettivamente mutualmente benefico per i Paesi interessati. Sicuramente, questo è possibile se il governo del Paese è capace di rispondere proattivamente al disegno cinese e ha le necessarie risorse per finanziare autonomamente, o almeno in parte, progetti sul proprio territorio. Partendo invece da una situazione svantaggiata, Paesi come il Tajikistan rischiano invece di incappare in una situazione debitoria di pericolosa dipendenza da Pechino. Certo è che, nel mondo globale in cui viviamo, essere connessi paga molto più che chiudersi nelle proprie roccaforti nazionali. Asia Centrale docet.