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L’Islam in Tagikistan: pròfasis o aitìa? (di Lucia Bortolotti)
Il Tagikistan è una delle cinque repubbliche dell’Asia centrale post-sovietica, confinante con Uzbekistan e Kirghizistan a nord, con la Cina a est e con l’Afghanistan a sud. Si tratta di uno dei territori più poveri della regione eurasiatica - in quanto sprovvisto di risorse energetiche-, caratterizzato da una situazione politica particolarmente fragile e complessa sin dagli albori dell’indipendenza dall’URSS. Infatti, già nel 1992, in seguito ad un colpo di stato, scoppiò una violenta guerra civile terminata dopo sei anni, con un trattato di pace e delle elezioni presidenziali che hanno ufficialmente assegnato il ruolo di capo di stato a Emomali Rahmonov, tuttora leader marcatamente autoritario della Repubblica tagica.
Soprattutto a partire dagli anni duemila, la situazione politica interna è diventata sempre più oppressiva, con una capillare repressione della libertà di espressione, della stampa e dei movimenti di opposizione, accompagnata da un crescente nazionalismo delle leadership al potere. Da una parte, sono state promulgate leggi di “de-russificazione”, tra le quali il divieto di dare nomi russi ai nuovi nati, decisione che il presidente ha incoraggiato modificando il proprio cognome da Rahmonov a Rahmon (Peimani H., Conflict and Security in Central Asia and the Caucasus, ABC-CLIO, 2009, p.119). Dall’altra, il governo ha anche tentato di sopprimere le manifestazioni di appartenenza religiosa e di controllare la diffusione della religione musulmana attraverso le stesse pratiche che, in modo fallimentare, erano state messe in atto durante il periodo sovietico. Infatti, oltre a vietare l’utilizzo dell’abbigliamento tradizionale musulmano ed il velo per le donne, sono state anche chiuse moltissime moschee utilizzando pretesti legislativi (almeno 45 moschee sono state chiuse nel 2017 nel distretto di Ghafurov perché non rispettavano i criteri di distanza urbanistica l’una dall’altra [1]) e interrotti forzatamente gli studi dei giovani tagichi nelle madrassas all’estero, costringendoli al rimpatrio.
Ancora oggi lo scenario interno risulta essere particolarmente critico, e si sono intensificate le situazioni di violenza estrema: nel luglio 2018 un gruppo di turisti occidentali che stava viaggiando in bicicletta nel sud del paese è stato deliberatamente colpito da un veicolo che ha ucciso quattro persone. L’attacco è stato successivamente rivendicato dallo Stato Islamico, ma il governo tagico ha invece accusato il partito d’opposizione IRPT (Islamic Revival Party of Tajikistan), il quale nel 2015 era stato dichiarato illegale dal presidente Rahmon in quanto affiliato a dei gruppi terroristici [2].
Questo avvenimento è solo uno di una lunga serie, ed il più recente risale solo a poche settimane fa. Infatti, nell’arco degli ultimi sei mesi hanno avuto luogo ben due rivolte carcerarie dai toni estremamente violenti e controversi [3]. A novembre del 2018 a Khujand, nel nord-est del paese, sono morte quasi 50 persone, quasi tutti prigionieri accusati di essere fuggiti dal paese per aderire a gruppi terroristici. Durante lo scorso maggio invece, in una rivolta nella prigione di Kirpichnij sono morte 33 persone tra guardie e prigionieri, tra cui due noti esponenti dell’Islamic Revival Party, Said Kiemitdin Gozi e Abduusattor Karimov, che erano stati arrestati in circostanze ambigue. Secondo le fonti ufficiali, la sommossa sarebbe scoppiata in seguito ad uno scontro per mano di alcuni membri dello Stato Islamico e dei rappresentati del IRPT guidati da Behruz Gulmorod, figlio dell’ex capo delle forze speciali nazionali e accusato, come il padre, di aver aderito allo Stato Islamico in Siria l’anno precedente [4].
Il comunicato ufficiale afferma che, con lo scopo di intimidire gli altri prigionieri, i membri dello Stato Islamico hanno ucciso cinque persone e picchiato quasi mortalmente altre dieci, senza però spiegare in quale modo siano state coinvolte le altre vittime [5]. L’ambiguità della vicenda si intensifica inoltre a fronte del fatto che solo un corpo sia stato restituito alla relativa famiglia, ossia quello di Karimov, mentre gli altri siano stati cremati senza dare la possibilità ai parenti delle vittime di celebrare i riti funerari islamici. Sul proprio sito web l’IRPT sostiene che sul cadavere di Karimov fossero presenti i segni di un’esecuzione con arma da fuoco e di diverse pugnalate alla schiena, mentre le fonti ufficiali sostengono che sia stato coinvolto nella rivolta ed ucciso dai prigionieri affiliati allo Stato Islamico [6].
Molte organizzazioni internazionali hanno manifestato preoccupazione per il modo in cui la vicenda è stata presentata pubblicamente, soprattutto a fronte del fatto che il governo ha provveduto a stilare e diffondere molto velocemente una lista di tutte le personalità coinvolte nella sommossa di Kirpichnij, sebbene lo Stato Islamico non abbia pubblicamente rivendicato l’azione e molti dettagli sembrano non combaciare con quanto dichiarato dalle autorità, mentre per la rivolta di novembre sono stati necessari alcuni giorni prima che venisse divulgato un comunicato ufficiale rispetto all’accaduto.
In generale, il governoha sempre espresso preoccupazione rispetto alle minacce del radicalismo islamico proveniente dall’estero (indicando come fulcri principali di origine di questa minaccia il confine afghano a sud e quello a nord-ovest con l’Uzbekistan), reputandole la causa primaria dei disordini del paese. Inoltre, “the government’s classification of whom it deems to be a full-fledged Islamic State militant has been confused by its numerous but largely risible attempts to elide that group with the IRPT, which has long insisted it repudiates radical action and has no truck with extremist Muslims [7].”
A fronte di una situazione così instabile, è possibile dunque individuare nella “eterna lotta al radicalismo islamico [8]” dell’Asia Centrale l’aitìa, ossia la reale causa dell’instabilità politica del Tagikistan, o la radicalizzazione religiosa è invece più un pretesto addotto a giustificazione delle tensioni sociali interne nel discorso ufficiale del governo?
Soprattutto a seguito dell’attacco terroristico a Stoccolma nel 2017, avvenuto per mano dell’uzbeko Rakhmat Akilov [9], nel mondo occidentale si è iniziato a osservare con attenzione la questione del fondamentalismo islamico in Asia Centrale [10]. Molti studiosi e organizzazioni internazionali hanno infatti evidenziato come la combinazione tra governi spiccatamente autoritari, scarse opportunità economiche ed educative e elevato livello di ingiustizia sociale e corruzione, rappresenti per le organizzazioni radicali religiose un terreno fertile sul quale impiantarsi, attraendo specialmente i più giovani [11]. Alcuni esperti hanno anche sostenuto che, attraverso la promulgazione di leggi anti-musulmane, il governo di Dushanbe abbia involontariamente alimentato lo sviluppo di una islamizzazione “segreta”, pericolosamente vicina al radicalismo islamico proveniente soprattutto dal vicino Afghanistan [12].
Diversamente si è espresso il noto studioso John Heathershaw [13], il quale ha invece criticato la possibile presenza di un legame tra quella che è in realtà una moderata minaccia terroristica nella regione e l’invece elevato numero di disordini sociali, come accade soprattutto in Tagikistan. Infatti, egli sostiene che si tratterebbe piuttosto di un espediente del governo per rafforzare le proprie politiche oppressive, utilizzando come pretesto la minaccia del radicalismo islamico alla sicurezza nazionale.
Per quanto possa essere complesso stabilire quale teoria rispecchi la realtà esistente in Tagikistan, certamente è possibile affermare che la situazione attuale a livello politico, sociale ed economico del paese è assolutamente delicata e sottovalutata a livello di attenzione mediatica internazionale. Il ruolo del Tagikistan nell’arena globale, sia per gli attori chiave della regione (Russia e Cina) che per il mondo occidentale, è sicuramente cruciale e strategico, ed in quanto tale merita di essere analizzata in maniera più approfondita. Anche per quanto riguarda le relazioni con l'Italia, lo scorso anno è stato portato a termine in Tagikistan una delle più grandi dighe al mondo, il progetto idroelettrico di Rogun, che mira a raddoppiare l’attuale scarsissima produzione di energia elettrica del paese, in seguito ad un accordo tra il governo tagico e l’impresa italiana Salini Impregilo [14]. La presenza di opportunità economiche e di interscambio di questo tipo costituisce indubbiamente motivo per creare una base di conoscenza ed attenzione nei confronti di una delle realtà più complicate e conflittuali dello spazio post-sovietico.